Buongiorno, intanto, la ringraziamo per la sua testimonianza. Immagino che non sarà facile ricordare le storie di ragazzi che sono entrati nel tunnel della droga. Ci dica, dove ha lavorato? Di cosa si occupava? Come è entrato a contatto con i tossicodipendenti?
• La mia storia ha un inizio ben preciso. Era l’anno 1999, io ero un giovane che si affacciava al mondo. Devo iniziare con una confessione: ho una repulsione per le armi, per questo ho scelto di fare il servizio civile, invece, del servizio militare. Sono stato inviato in una struttura che si occupava di vari ambiti: anziani, bambini con disabilità, tossicodipendenti. I tossicodipendenti seguivano un percorso strutturato in fasi: si partiva dalla bassa soglia, passando per l’accoglienza e infine alla comunità. Per essere precisi, la “bassa soglia” era un centro in cui i tossicodipendenti potevano rimanere al massimo tre mesi, con una proroga di uno. Qui si cercava di aiutarli a disintossicarsi con il metadone. Successivamente si passava all’Accoglienza, in questo luogo si restava circa un anno, per poi arrivare alla Comunità, si trascorreva un periodo senza far uso di sostanze o di metadone. lo lavoravo proprio nella bassa soglia, un centro di accoglienza per tossicodipendenti attivi. Dov’era? In un piccolo appartamento al pianterreno di un palazzo, a due passi da un ospedale. C’era una piccola stanza per dormire, una sala comune, e una stanza per l’operatore. Potevamo ospitare un massimo di otto persone. La struttura era molto semplice, ma era fondamentale per il nostro lavoro. Ho vissuto lì per circa dieci mesi. Vuoi sapere qualcosa di specifico?”
La ringrazio. Può raccontarci un’esperienza particolarmente intensa vissuta durante quel periodo?
• L’esperienza più tosta che ho vissuto è questa: una sera ci trovavamo lì io e un operatore, che in quel caso era un’operatrice. Quest’operatrice era una signora che aveva avuto suo figlio tossicodipendente e aveva cominciato a fare volontariato. Si chiamava Jessica (nome inventato per motivi di privacy, così come gli altri), e di professione faceva la ballerina classica e lavorava nei teatri. Poi suo figlio ha avuto questa esperienza con la tossicodipendenza, lei ha fatto volontariato per aiutare il figlio e poi è rimasta lì a lavorare. Eravamo io, lei e l’obiettore di coscienza che c’era prima di me. A un certo punto, era sera e mi sento chiamare e vado in corridoio, ma non c’era nessuno così ritorno in ufficio. Passano cinque minuti e mi sento richiamare ancora più forte. Ok, allora vado ed entro nella stanza di quell’unico ragazzo, Lorenzo, che poteva chiamarmi, apro e con la sola luce del corridoio l’unica cosa che vedo è una chiazza a terra, rotonda. Accendo immediatamente la luce e quell’enorme chiazza era sangue, perché lui con un taglierino si era tagliato le vene più e più volte e poi si era messo di lato aspettando di morire. Lui appena mi ha visto cominciò a minacciare me e mia madre di morte disse: “Se parli ti ammazzo, non devi dire niente, se parli ti ammazzo, ammazzo te, ammazzo tua madre, anzi ammazzo prima tua madre e poi te”. Superato il terrore mi sono avvicinato, gli ho toccato i polsi sporcandomi di sangue, infatti poi ho dovuto fare l’analisi, e gli ho detto: “ No finché ci sono io qua tu non i muori”. Quindi immediatamente lo porto al pronto soccorso, insieme all’altro obbiettore che aveva la macchina. L’ospedale era a pochi metri e rimaniamo lì qualche tempo. La cosa divertente è che qualche giorno dopo, ci siamo incontrati: mi guarda e mi fa “Gino, vieni un attimo”, mi avvicino, mi porta nella sua stanza , (e lì mi sentivo sempre più morto) chiude la porta a chiave (e io lì ero…) e mi dà il più forte abbraccio che io abbia mai ricevuto in tutta la mia vita, ma proprio mi abbraccia fortissimo e intanto mi ringrazia, augura la salute a me e a mia madre. Questa è l’esperienza più bella! Forte. ma bella!
Ha vissuto altri momenti tragici?
• Di che tipo? Ce ne sono alcune anche un poco divertenti, perché loro erano liberi di uscire e tornare, cosa che agli occhi degli altri sembrava drammatica, ma per noi, era fondamentale. Ad esempio c’era questo ragazzo Matteo, che tornava sempre fatto, noi ci trovavamo a cena, e letteralmente ogni sera Matteo rischiava di annegare nel cibo, perché si addormentava nel piatto. Però noi ci scherzavamo, perché eravamo tutti a tavola, facevamo “pigghialu pigghialu pigghialu” perché lui cadeva ogni due per tre. Oppure ti posso parlare di Luigi, un ragazzo di 40 anni. È venuto lì perché voleva farsi l’astinenza a secco, cioè senza metadone. Era estate, eravamo in centro città, c’erano 40 e rotti gradi e lui era con il giubbotto di pelle perché sentiva freddissimo, però sudava, sentiva freddo. Una volta Luigi mi ha difeso. C’era un ragazzo, figlio di papà che ce l’aveva con me. Ogni volta che mi vedeva lì, mi diceva “palermitano di merda” e cose del genere. Luigi che parlava con me per ore, facevamo pomeriggi interi a parlare ininterrottamente dalle due alle sei, alle sette e lui parlava, parlava, parlava, voleva soltanto qualcuno che lo ascoltasse. Si era creata una sorta di amicizia, vera. Un giorno, eravamo lì, un pomeriggio io e Luigi a parlare, faceva sto caldo incredibile. Entra questo ragazzo che piglia e mi dice: “Palermitano di merda”. A Luigi sta cosa nun ci calò, si alza, va da Fabrizio che lo sovrastava perché era più grosso, mentre Luigi era alto ma magro. Luigi lo prende per la collottola, lo sbatte al muro, lo alza con una mano e gli dice “La prossima volta che tu chiami Gino, tu esci da qua per i piedi” e gli ha detto “T’ammazzo”. Ho scoperto poi dopo che Luigi aveva due processi per omicidio in corso. Il giorno dopo Fabrizio mi portò il caffè a letto. Ti posso raccontare anche di Luca, che è venuto lì con la sua cagnolina. Ho tante storie da raccontare
Queste esperienze forti, quale riflessione, considerazione la spingono a fare?
• C’è un denominatore che è il parlare, perché loro si sentono isolati dal resto del mondo; non sono i più forti, sono i più deboli, per quanto si credano i più forti. Basta poco. Mancava una settimana al congedo, c’era la riunione di equipe, io non potevo partecipare, scendo come ogni mattina e una delle assistenti sociali, mi chiama e lì c’erano gli assistenti sociali, la direttrice e lo psichiatra responsabile a livello medico. Io pensai, “che è successo, che ho fatto?” Entro, e mi dissero:“ Ieri sono venuti da me i ragazzi, non solo quelli che ci sono adesso, anche quelli di prima si sono riuniti e mi hanno chiesto se tu puoi rimanere a lavorare qui”. Mi hanno offerto il lavoro lì, con il contratto a tempo indeterminato. Ovviamente per motivi familiari ho dovuto rifiutare, però questo mi ha fatto capire che forse avevo fatto un buon lavoro. Purtroppo, in quell’anno nessuno dei miei ragazzi, ha deciso di passare in accoglienza o in comunità, poi so che la struttura ha avuto problemi economici, io me ne sono andato e non mi sono interessato più troppo della situazione.
Ha dei rimpianti?
Gianmarco, un omone alto quasi un metro e novanta biondo, pelle chiarissima, occhi azzurrissimi che era forse il miglior rappresentante di farmaci di tutta la città. L’ho lasciato quando lui ha dovuto abbandonare la struttura, lui era sieropositivo aveva la psoriasi letteralmente la pelle gli si apriva e sanguinava. Viveva in spiaggia, si copriva con la sabbia per non sentire freddo e si prostituiva per comprarsi le dosi.
Nel salutarci. Vuole lasciare un messaggio?
Vivere sempre
(i nomi dei personaggi sono frutto della nostra immaginazione)
Si ringrazia il prof. Sansone Giuseppe per aver condiviso con noi questa esperienza!
Intervista a cura di Martina Albanese
Trascrizione a cura di
Aurora Tripi
Francesca Maria Castiglione
Vittoria Tripi
Karolyna Mulè
Elena Dispenza
Sofia Dispenza




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